mercoledì 10 dicembre 2008

SO E NON SO SO E NON SO

La sorpresa di questa esperienza è stata quella di scoprire di non sapere cosa voglio e di non sapere chi sono. Mancano due settimane alla mia partenza, questo è il penultimo post che pubblicherò, direi che mi posso permettere una piega intimista. I miei due lettori (Davide. Michi? ...Sara?) potranno perdonarmi lo sfogo.

Io non so cosa mi piace fare, è una tragedia. Non riesco a separare la sfera del potenziale da quella del personale. Resto completamente assorbita da storie di persone che viaggiano in giro per il mondo e fanno cose incredibili e scrivono cose incredibili, o anche solo vivono cose insolite, nuove, anche quotidiane storie di diversità. E voglio farle anch'io. Ma poi non mi piacciono. Voglio fare la giornalista? Non lo so. Voglio conoscere gente? Non lo so. Voglio lavorare in una casa editrice? Forse. Voglio avere dei bambini? Forse. Mi piace leggere. Mi piace stare sola. Mi piace il silenzio. C'è una tendenza malsana in me all'isolamento e non la riesco a evitare. Dovrei? Non lo so. Hanno senso tutte queste domande? Non lo so. So che mi piacciono le storie. Mi piace sentire le persone, una per volta, raccontarmi la propria vita. So che mi spaventano i gruppi di persone che non conosco tutte insieme. So che mi piacciono i rapporti esclusivissimi. Mi piacciono le parole scritte. Vorrei scrivere? Non lo so, ma ho questo pensiero che dovrei farlo perché credo che mi riesca bene, quando mi ci impegno. Ma leggere una pagina ben scritta mi è un piacere che non si può misurare. Non mi piace sentirmi esposta. Per questo non mi piace girare sola per le strade di Dar, dove lo sport preferito di molti è chiamarti, “Mzungu! Mzungu!”. Non mi piace scendere da un pullman ed essere accerchiata da una calca di persone, mi è un fastidio sensibile. Non vorrò stare chiusa fino a sera tarda in redazione, credo che preferirei leggere. E questo piacere matto per la lettura, così solipsistico, così nuovamente malsano. La questione del “vivere” opposto a “leggere”. Non so se ha senso e non so perché me ne faccio un problema, ma a volte me lo faccio. E quando sono in mezzo ad amici quante volte penso che per me sarebbe ora di andare, c'è un libro che mi aspetta in camera. So e non so, so e non so. Non so chi sono. Non so chi sono. Non so chi sono. O lo so?

mercoledì 3 dicembre 2008

NASCERE ALBINO IN AFRICA

Oggi l'aria è fresca, incredibile!, e il cielo è drammatico. Piove un poco poi smette, ma quasi quasi senti un brivido, nei piedi nudi. Il cielo è una lastra di grigio acciaio e sprazzi di bianco e giallo. L'aria è fresca. Dopo 2 mesi e mezzo di caldo più o meno soffocante risentire il fresco diventa un miracolo. Le donne tanzaniane, almeno quelle che lavorano in ostello, sono generose sorridenti e riservate. Non so come ma mi chiamano per nome. E io non conosco i loro. Il verde è più verde su questo sfondo grigio piombo. Le nuvole non corrono più e i corvi riescono a seguire la direzione che volevano. Il vento si è calmato.

Fra meno di tre settimane torno a casa. Mi sembra che mi si accenda solo adesso una scintilla. Mi riaccendo. Con troppo tempo davanti la prendo comoda, mi impigrisco, mi chiudo, aspetto. Adesso sono vicina alla fine e mi torna la voglia di correre. Di andare, di vedere di scoprire qualcos'altro. Di fare quello che mi ero prefissata. Siamo tutti così? Solo io funziono con scadenze a breve termine? Ma no.

Ho cominciato a informarmi su come riuscire a incontrare uno stregone (witch-doctor). Uno dei guardiani dell'ostello mi ha detto che solo a Dar saranno centinaia. Come i medici della mutua, insomma. La gente ci va quando sta male, quando ha smarrito qualcosa o per risolvere problemi amorosi o economici o familiari, casi generici. Le prime cure sono erbe, piante, decotti. Un corrispettivo della medicina omeopatica, direi. I casi di smarrimento sono già più interessanti. A detta del guardiano dell'ostello, lo stregone ha una specie di monitor di vetro dove appare la scena dello smarrimento, che di solito è un furto. Da cui poi risali al luogo dove si trova l'oggetto in questione, e anche il malfattore. Sui casi generici si concentra tutto il peggio che di solito un occidentale immagina, del cuore di tenebra. Per ora so che nei casi di amori fedifraghi, puoi assicurarti l'amore eterno ed esclusivo del tuo partner facendogli bere un qualche intruglio che lo renderà tuo schiavo. Da quel momento non potrà più allontanarsi da te, ti vorrà sempre accanto, non potrà lasciarti mai. L'effetto collaterale e che così facendo perderà anche un po' il senno, non potendo fare altro che pensare a te in modo ossessivo.
Se sei in cerca di soldi o di fortuna le soluzioni sono più varie. Lo stregone potrà chiederti di portargli una capra viva, un gallo multicolore, un pezzo di albino. Se non riesci a reperire ciò che ti viene indicato significa che non c'è e non ci sarà soluzione ai tuoi problemi. Nelle zone dell'interno dove ci sono tante miniere d'oro, ogni giorno c'è qualche brutta notizia sugli albini. Un albino ucciso, un albino a cui sono state tagliate braccia, gambe o altro, tentato omicidio di un albino, proteste degli albini al governo perché non fa abbastanza. Non credo ci sia niente di peggio che nascere albino in Africa (nascere ebreo sotto Hitler? Non sono sicura). Non solo il cancro alla pelle è una certezza, ma devi sempre stare attento a che qualcuno non voglia ucciderti per ricavare un amuleto potentissimo dalle tue mani. Il guardiano dice che il numero di omicidi di albini sta aumentando. E si domanda un po' stranito: “Se l'omicidio di un albino non porta i soldi per cui l'hai ucciso, perché continuare a ucciderli?”

mercoledì 26 novembre 2008

LO SPAZIO DEL SILENZIO

In due mesi quaggiù a Dar Es Salaam non sono ancora riuscita a trovare uno spazio personale privato e intimo in cui sentirmi a mio agio. Credo a questo punto, a un mese dal mio rientro, di non trovarlo più. Uno spazio dove stare sola e in pace. Un parco, una piazza dove sedersi tranquilla a guardare la gente che passa, a fumare una sigaretta in contemplazione. Un bar carino dove stare per ore a vedere cosa succede intorno. Siamo chiusi in compound e la città è una specie di giungla di auto e schiamazzi. In centro non puoi stare tranquillo e comunque è un po' brutto la voglia di sederti in un angolo a guardare generalmente ti passa. E se anche volessi sederti lungo Mosque Street di fronte a una di quelle bellissime moschee non puoi sperare di essere lasciato in pace. Ma tanto non ci sarebbe un posto per sedersi comunque. A parte gli scalini o il marciapiede rotto. Ci sono dei bei bar nei centri di negozi per bianchi ma sono appunto per bianchi. E cosa li guardi a fare? 

L'ostello diventa un'oasi di notte. Quando sono sola con il rumore del generatore e un guardiano che sonnecchia. Essere soli al buio di notte, non voglio cercare altro, non voglio sapere altro. Basta un libro, una storia, un momento di poesia. Come si diventa lirici con un po' di silenzio intorno e del tempo per maturare un po' di spazio interiore. Cerco poesia intorno e penso che mi sarei dovuta portar dietro i miei classici, un po' di Hrabal, un po' di Montale, un po' di DeLillo e a chiudere anche un po' di Pavese. Com'è che sono diventata così malinconica non lo so. Non ho argomenti e forse ho troppo tempo.

Ma a pensarci bene il mio problema è un altro ancora. Sono partita allo sbaraglio convinta che le cose da scrivere mi sarebbero cadute intorno. Ci sono tante cose nuove, certo. Ma non ho punti di riferimento e non ho nemmeno considerato il mio carattere. A vedere le mie azioni a posteriori sembra che io non mi conosca e forse è così. Se fossi stata catapultata a Catania, per dirne una, o a Roma, sola, chiusa in un ufficio fino a metà pomeriggio tutti i giorni, avrei conosciuto qualcuno oltre alle persone del lavoro e dell'alloggio? Probabilmente no. Eppure pensavo di arrivare qui e conoscere i tanzaniani tutti in un colpo. E poniamo sempre di essere stata a Roma, non avendo alcuna rete di contatti come avrei fatto a scrivere qualcosa? O ti capita un omicidio sotto al naso, e allora d'accordo. Ma per un'inchiesta, per dire, c'è bisogno di punti di riferimento da cui sai che puoi cavare informazioni, e ci vuole tempo. Non so cosa mi aspettassi da me e da questa esperienza. Certo che ne sto cavando qualcosa, ma mi sono serviti due mesi soltanto per riformulare gli obiettivi.  

mercoledì 19 novembre 2008

COPPIE COLORATE

La scienza dice che mixare più sangue possibile è cosa buona per la specie umana. Prova ne sono le piccole isole, dove circolano più malattie genetiche. Il sangue sempre uguale apparentemente marcisce lungo le generazioni. Le coppie multi-color quindi dovrebbero essere un'ottima soluzione al ristagno. Eppure quelle che vedo qui non mi convincono.
Ci sono tantissime donne sulla quaranta/cinquantina che si accoppiano con tanzaniani/Masai giovani o meno giovani. O donne tanzaniane giovani e ancor più giovani accoppiarsi con bianchi più o meno in là con gli anni. Queste sono le tipologie che mi capitano più spesso sotto il naso. Certamente ci sono anche coppie più omogenee. Ma cosa facciamo della differenza linguistica, e soprattutto culturale? Chiedersi cosa spinga una donna di mezza età ad accoppiarsi con un giovane nero può essere banale. Chiedersi cosa spinga un vecchio bianco a farlo è scurrile. Ma questi sono gli eccessi. Eppure mi chiedo se per caso una donna occidentale non si cimenti in un rapporto con un africano perché c'è qualcosa che non trova nel maschio medio occidentale. Chiaramente sono impressioni, ma la mia idea è che l'uomo europeo si sia lasciato andare troppo spesso alla ricerca della bellezza giovane e a piaceri senza responsabilità. Un uomo bianco potrebbe controbattere che la donna bianca si è spinta troppo oltre sulla strada dell'inaccessibilità e dell'egocentrismo. 
Ma prendiamo una coppia apparentemente ben assortita. Poniamo che lei sia una trentenne bianca e lui un trentenne nero. O nessuno dei due parlerà con l'altro la propria lingua madre, oppure uno dei due parlerà quella dell'altro. Ma si può riuscire a farsi davvero capire uno dall'altro? Il fatto che si faccia già fatica a capirsi anche senza la barriera linguistica significa che aggiungere la differenza di lingua è trascurabile (tanto la comunicazione è un problema comunque) oppure è un ostacolo in più? Ma poniamo che con tanto impegno e dedizione si superi il problema, la differenza culturale non pesa? Se si tratta di una coppia mista entro i confini occidentali, le divergenze non sono poi tante, ma tra un africano e un'occidentale? Non dico interessi comuni ma simili almeno. Esagero? Se con una persona non so di cosa parlare per me il rapporto finisce. Se non ho niente con cui ridere insieme, preferisco un libro. Non voglio dire che si sta solo con i propri simili, si finirebbe con l'alimentare malattie culturali come il fanatismo. Ma non so ancora quanto in là si possa spingere il limite dopo il quale le differenze smettono di arricchire il rapporto e diventano un muro.

I rapporti possono non funzionare anche tra due bianchi, ovvio! Si fa presto a dire che non è il colore che fa la differenza, che non è questione di colore. Non è vero. Qui il colore fa la differenza eccome! Io bianca ho mi ritrovo con dei neri appresso perché sono bianca. Io bianca sono vista come un portafoglio che cammina perché sono bianca. Io bianca ho un prezzo maggiore rispetto ai neri perché sono bianca. Non c'è niente che cancelli questa differenza di percezione. Siamo cresciuti così. Loro vedono i bianchi belli e ricchi. E noi vediamo i neri brutti e poveri. Ok non sempre brutti. Lo scoglio è grande e il colore è la differenza. Perché il colore si trascina dietro inevitabilmente una questione simbolica e culturale, che è la differenza. E qui le differenze le senti in ogni momento del giorno. Il colore è la questione. I motivi che spingono un bianco o un nero ad avvicinarsi all'altro sono già ideologici.

Eppure vedo coppie bianco-nero funzionare bene. Coppie che si sono ritrovate a studiare insieme, a lavorare insieme. Quindi forse stare insieme nel tempo crea quell'intimità che va oltre le cose in comune come la lingua e la cultura, e la vita stessa diventa semplicemente in comune.

Resta il fatto che spesso i bianchi, maschi e femmine, vengono qui a cercar sesso facile, ma questo è abbastanza disgustoso dappertutto.  

mercoledì 29 ottobre 2008

Africa violenta

Ho assistito alla mia prima rissa da incidente d'auto. In mezzo alla strada vicino al mio ostello, un dala-dala e un auto in scontro frontale, ma non mortale, niente di grave sembrava. Subito si è formato un capannello di persone intorno e hanno cominciato a prendersela con un uomo. Tutti addosso a lui, che strillava qualcosa. Bisogna sapere infatti che in questo posto chiamato Africa quando capitano incidenti d'auto, se la colpa è evidentemente dell'autista e ci scappa il morto o il ferito grave, il pubblico presente cerca di linciare il colpevole. È una pratica piuttosto comune. Per questo il consiglio che tutti danno ai novelli bianchi appena capitati qua è questo: se per un caso malcapitato dovessi investire qualcuno, non fermarti mai! Scappa alla tua ambasciata e non uscirne! L'uomo che rischiava il linciaggio sotto i miei occhi stava effettivamente gridando di non essere lui l'autista, ha detto poi il mio bajaji. Non so se alla fine sia stato picchiato a morte. Quando l'ho visto scappare ho pensato che non sarebbe finita in tragedia, ma quando poi è tornato con una vanga, ho detto al mio bajaji di levare le tende, anche perché la ressa era sempre più vicina.

Pare che il linciaggio immediato e indisturbato avvenga anche nei casi di furto. Se qualcuno viene scoperto in flagrante, o se il derubato inizia ad accusare qualcuno, comincia la caccia al ladro, e ci sono buone probabilità che finirà ucciso dalla folla. Perché c'è sempre della folla pronta a riunirsi, e i casi di linciaggio possono tranquillamente finire in omicidio. Ti picchiano finché non ti uccidono. Ladro. Autista che ha provocato un incidente d'auto. Queste le principali cause di linciaggio, non credo ce ne siano altre. In pubblico, intendo. Se la polizia interviene può non finire in tragedia. Ma qui la gente è stanca della corruzione. Se il ladro finisse anche in galera, se ha due soldi da dare alla polizia, allora è libero, impunito. Perciò l'unico modo per premunirsi è ucciderlo sul posto. All'istante. Se morto, allora è un ladro in meno. Lo stesso per gli autisti, soprattutto di dala-dala, che hanno fama di guidare come i pazzi. Un pericolo in meno. 

Quando ho visto l'uomo picchiato dalla folla riuscire a divincolarsi per poi tornare alla carica con una vanga ho avuto paura. Non solo paura della situazione, che comunque aveva dei margini di rischio. Ma paura che quello che si dice dell'Africa fosse vero. E il fatto è che in parte lo è. La prima cosa che mio zio mi ha detto, quando ha saputo che stavo per andare in Africa, è stata: “Ma là si uccidono come niente! Là sono cannibali!”. D'accordo, è veneto e pure leghista, e la questione dei cannibali è risibile. Ma. C'è un grosso Ma che adesso mi si para davanti. Ci sono esplosioni di rabbia folle in cui semplicemente uccidono. Anche da noi si uccide certo. Però il linciaggio pubblico, accettato, forse è un po' diverso, ma devo ancora pensarci su. 

mercoledì 22 ottobre 2008

RITORNO DA UNA CITTÀ-VILLAGGIO

Torno da un weekend a Njombe rinata, rappacificata, distesa e caricata di nuova energia. Non è la Tanzania che non mi piace, è solo Dar Es Salaam. Posso restringere il campo della mia frustrazione e così facendo ammorbidirla. 
Njombe è una città di 40.000 abitanti a Sud della Tanzania, su un altopiano di 2000 metri. A Njombe fa un freddo incredibile e la nebbia la mattina è praticamente padana! È una città che ti aspetti in Africa. Una specie di villaggio espanso, tutto fango e tetti di lamiera. Solo la strada principale che l'attraversa è asfaltata, tutto il resto è rosso sterrato. Puoi passeggiare tranquillo, nessuno che ti importuna. Nessuno che ti offra un taxi, un bajaji, o che ti chieda dei soldi. Certo se passi al mercato sentirai sempre "mzungu!" nelle orecchie, ma tutti i mercati del mondo sono uguali! (non che noi ci mettiamo a richiamare l'attenzione di un africano dicendogli dietro “ehi nero!”, però sono situazioni diverse, credo). C'è un'atmosfera rilassata. E per di più sono stata tutto il tempo con ragazze parlanti kiswahili. E insomma sono tornata a Dar contenta, pronta a rilanciarmi di nuovo nell'Africa. Pronta a imparare il kiswahili, a salutare tutti quanti (che se no si offendono), pronta a parlare il più possibile e a rivalutare Dar Es Salaam, la Tanzania e l'Africa intera! 
Ho anche avuto modo di parlare di Dar Es Salaam con un tanzaniano che fa il veterinario lì a Njombe. Nonostante il mestiere che fa non riesce a mantenere la sua famiglia, e così ha cominciato ad accumulare polli. Adesso ne ha 400! e tra le uova e tutto riesce ad arrivare alla fine del mese. Mi raccontava che i salari sono miseri ma in un villaggio sono tutti nelle stesse condizioni, tutti mediamente poveri, tutti senza mezzi di trasporto (per queste strade si va a piedi, al massimo in bicicletta), eventualmente tutti senza acqua corrente o elettricità. Ma ci teneva a dirmi che sono felici perché sono insieme, perché stanno bene e perché non hanno problemi. E sono solidali l'uno con l'altro. A Dar Es Salaam si respira un'aria del tutto diversa perché c'è una profonda disuguaglianza tra la gente. Ci sono persone estremamente ricche, con ville, macchine lussuose, vestiti costosi. E accanto a loro gli immigrati dalle campagne, i disoccupati, gli estremamente poveri. La loro frustrazione si respira. 
Eppure torno da Njombe pronta ad andare oltre la prima impressione. Ho ricominciato con i dala-dala e ad andare in giro a piedi, per quanto mi permettono queste distanze almeno. Ho persino scoperto che anche Dar Es Salaam ha degli angoli che meritano di essere visti, come Mosque Street dove le moschee sono veramente da fiaba. E se sorridi tutti ti salutano. 

mercoledì 15 ottobre 2008

Stare in Africa ti fa diventare razzista?

È ora di parlare di africani. Qui le voci si moltiplicano su quello che la maggior parte degli europei/occidentali ancora credono, me compresa fino alla settimana scorsa. Il punto è questo: dal nostro bianco mondo civile pensiamo ai poveri neri affamati, e alle nostre colpe di colonizzatori. Però una volta che arrivi qui, cominci a farti delle domande. Cose tipo: ma perché con una terra così ricca di minerali, pietre preziose, possibilità turistiche incredibili, perché i soli ad arricchirsi sono i politici? Perché nessuno dice niente della condizione delle strade? Perché non si possono avere strade asfaltate senza buchi come crateri? O degli autobus anche solo vagamente più civili? Dove non sei stipato come un ebreo e dove non ti cede la sedia sotto al culo. Perché la città deve essere così irrimediabilmente brutta? Cadente, sporca, fatiscente e puzzolente. E perché tutti poveri ma pieni di auto? E cellulari. 
Poi arrivano il secondo round di domande: e se davvero fosse ora di far basta con gli aiuti ai poveri Paesi africani? Cosa fanno tutti i nostri finanziamenti alla loro autonomia economica? E se si arrangiassero? Poi però pensi ai milioni di africani che morirebbero nelle campagne senza gli aiuti alimentari. E insomma non trovo una risposta alle questioni ormai mistiche sull'Africa. Ma di sicuro stare qui toglie un po' di smalto buonista. 
Il problema è che con “qui”, non intendo la Tanzania, ma Dar Es Salaam. Perché altrettante voci dicono che invece il villaggio è la realtà africana, ed è una realtà che funziona da sé. Dove è possibile che il nero non venga da te bianco solo a chieder soldi, ma a guardarti con curiosità, a scambiare due chiacchiere, informazioni. 
Forse si può tornare da un'esperienza in un villaggio senza diventare un po' razzista. O forse no. Due italiani stanno girando l'intero continente africano in auto (www.2africa4love.com). Hanno visto villaggi e città. E ora sono un po' più razzisti di prima. E anche loro dicono che l'africano in generale “vede l'uomo bianco come una cassaforte, di cui devono trovare la chiave per entrare”. D'altra parte però c'è anche un'altra coppia, che l'Africa la sta girando in bicicletta (www.worldbiking.info) che vede invece gli africani come persone sempre gentili, sempre disponibili. Una volta avevano persino lasciato una borsa con carte di credito e macchina fotografica in un bar. E il barista è corso loro dietro a riportargliela! 

Allora forse bisogna considerare i mezzi con cui affronti una nuova realtà. Forse più i mezzi sono simili a quelli delle persone cui ti stai avvicinando, più queste saranno disponibili. E con mezzi intendo ovviamente tutto il bagaglio fisico, psicologico e morale. E allora forse con meno bagagli arrivi e meglio è, qui in Africa. Meno bagagli e meno barriere. E allora bisogna anche aggiungere che il mio mezzo personale per avvicinare la realtà africana è completamente sbagliato. Che l'ambasciata è la cosa più lontana dalla realtà che qui si possa trovare. Ambasciata vuol dire soldi, vuol dire Yacht Club e Golf Club. Vuol dire barriera tra me e chi mi viene a chiedere il visto. Barriera di vetro, barriera di soldi e barriera linguistica. Perché non c'è verso che un qualunque funzionario diplomatico impari la lingua del posto per starci qualche anno. E io che ci sto qualche mese? Forse ho sbagliato tutto e non ci caverò un briciolo in più di conoscenza. Sono venuta per conoscere una cultura diversa dalla mia e non so se ne ho i mezzi, o le capacità per farlo.