mercoledì 15 ottobre 2008

Stare in Africa ti fa diventare razzista?

È ora di parlare di africani. Qui le voci si moltiplicano su quello che la maggior parte degli europei/occidentali ancora credono, me compresa fino alla settimana scorsa. Il punto è questo: dal nostro bianco mondo civile pensiamo ai poveri neri affamati, e alle nostre colpe di colonizzatori. Però una volta che arrivi qui, cominci a farti delle domande. Cose tipo: ma perché con una terra così ricca di minerali, pietre preziose, possibilità turistiche incredibili, perché i soli ad arricchirsi sono i politici? Perché nessuno dice niente della condizione delle strade? Perché non si possono avere strade asfaltate senza buchi come crateri? O degli autobus anche solo vagamente più civili? Dove non sei stipato come un ebreo e dove non ti cede la sedia sotto al culo. Perché la città deve essere così irrimediabilmente brutta? Cadente, sporca, fatiscente e puzzolente. E perché tutti poveri ma pieni di auto? E cellulari. 
Poi arrivano il secondo round di domande: e se davvero fosse ora di far basta con gli aiuti ai poveri Paesi africani? Cosa fanno tutti i nostri finanziamenti alla loro autonomia economica? E se si arrangiassero? Poi però pensi ai milioni di africani che morirebbero nelle campagne senza gli aiuti alimentari. E insomma non trovo una risposta alle questioni ormai mistiche sull'Africa. Ma di sicuro stare qui toglie un po' di smalto buonista. 
Il problema è che con “qui”, non intendo la Tanzania, ma Dar Es Salaam. Perché altrettante voci dicono che invece il villaggio è la realtà africana, ed è una realtà che funziona da sé. Dove è possibile che il nero non venga da te bianco solo a chieder soldi, ma a guardarti con curiosità, a scambiare due chiacchiere, informazioni. 
Forse si può tornare da un'esperienza in un villaggio senza diventare un po' razzista. O forse no. Due italiani stanno girando l'intero continente africano in auto (www.2africa4love.com). Hanno visto villaggi e città. E ora sono un po' più razzisti di prima. E anche loro dicono che l'africano in generale “vede l'uomo bianco come una cassaforte, di cui devono trovare la chiave per entrare”. D'altra parte però c'è anche un'altra coppia, che l'Africa la sta girando in bicicletta (www.worldbiking.info) che vede invece gli africani come persone sempre gentili, sempre disponibili. Una volta avevano persino lasciato una borsa con carte di credito e macchina fotografica in un bar. E il barista è corso loro dietro a riportargliela! 

Allora forse bisogna considerare i mezzi con cui affronti una nuova realtà. Forse più i mezzi sono simili a quelli delle persone cui ti stai avvicinando, più queste saranno disponibili. E con mezzi intendo ovviamente tutto il bagaglio fisico, psicologico e morale. E allora forse con meno bagagli arrivi e meglio è, qui in Africa. Meno bagagli e meno barriere. E allora bisogna anche aggiungere che il mio mezzo personale per avvicinare la realtà africana è completamente sbagliato. Che l'ambasciata è la cosa più lontana dalla realtà che qui si possa trovare. Ambasciata vuol dire soldi, vuol dire Yacht Club e Golf Club. Vuol dire barriera tra me e chi mi viene a chiedere il visto. Barriera di vetro, barriera di soldi e barriera linguistica. Perché non c'è verso che un qualunque funzionario diplomatico impari la lingua del posto per starci qualche anno. E io che ci sto qualche mese? Forse ho sbagliato tutto e non ci caverò un briciolo in più di conoscenza. Sono venuta per conoscere una cultura diversa dalla mia e non so se ne ho i mezzi, o le capacità per farlo.

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